WA. La via giapponese all'armonia by Laura Imai Messina

WA. La via giapponese all'armonia by Laura Imai Messina

autore:Laura Imai Messina [Laura Imai Messina]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 9788869879364
editore: Antonio Vallardi Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol
pubblicato: 2018-10-18T22:00:00+00:00


1. 断捨離 danshari

o della bellezza del vuoto

In Ore d’ozio. Tsurezuregusa, Kenkō Hōshi (ca. 1283-1352) esortava a non caricarsi di quanto non serve: «in ogni cosa – scriveva – limitatevi a ciò che possedete».

Quando tuttavia si è troppo accumulato serve buttare, buttare e liberarsi di tutto. Svuotare, scegliere con attenzione quel che si vuole che resti e lasciare andare tutte le altre cose. Ridurre i bisogni all’essenziale e intorno a quello lasciar navigare l’immaginazione. Dei tanti significati della parola «zen», quello che si collega al sentimento del vuoto – che è bisogno dello spirito ed equilibrio del cosmo – è di enorme impatto. Coltivare il minimalismo e non adombrare l’anima con inutili oggetti è la filosofia del danshari 断捨離.

Tre kanji affiancati che, come sanno fare solo gli ideogrammi, spiegano visivamente molto più di quanto non dicano nel suono. C’è kotowaru 断る che è «rifiutare», c’è suteru 捨てる ovvero «buttare, gettar via» e infine hanareru 離れる che significa «allontanarsi, prendere le distanze».

Una casa piccola va annaffiata di spazi, di cavità. Lasciata svilupparsi in lungo e largo. Una camera deve essere soprattutto aria, luogo dove muovere il corpo. Nelle grandi città giapponesi, dove gli appartamenti sono di pochi metri quadrati, danshari diviene una necessità che si fa virtù.

E tuttavia, quale che sia il contesto, una calibrata sottrazione sa sempre mettere in luce il meglio. «In letteratura – scriveva Satō Haruo (1892-1964) – l’arte dell’eleganza sceglie in maniera estemporanea la poesia, più vicina al silenzio; in arte, la pittura monocromatica, più vicina al vuoto».

Capita di cercare di dare un nome a questo sentimento che in momenti di stress ci sopraffà: avvertiamo forte il bisogno di ridurre all’essenziale, di sfrondare le appendici e mirare fluidi e sottili verso l’alto come piante. Grazie al danshari comprendiamo infine che l’abbondanza cui aneliamo non è quella delle cose, ma del tempo. Ecco allora sacchi, enormi sacchi dell’immondizia. Uno, due, tre poi quattro e anche cinque; arriva il sesto e poi il settimo. E la gioia inizia a farsi sentire.

Leggeri, infine, potremmo sollevarci anche da terra. Fluttuare in questo mondo pieno di volumi, di colori rutilanti che spingono e sussurrano «guardami!», «desiderami!», «comprami!».

Grazie al danshari, applicato con una sorta di liberatoria ferocia, siamo in grado di riaprire cassetti, scatoloni chiusi dagli anni del trasloco, astucci, file strabordanti di fogli, armadi gonfi di abiti e di scarpe che per troppo tempo abbiamo tenuto senza mai indossarli.

Averli amati non significa doverli tenere con noi tutta la vita. Accade anche agli amori, ad alcune relazioni intensissime che finiscono naturalmente e che non è giusto perpetuare solo perché ci si è abituati alla loro presenza, o perché è doloroso disfarsene.

Danshari è scegliere, selezionare il meglio, separarsi da ciò che, nel tempo che è adesso e per quelli che siamo ora, non ha più significato. Il senso negli anni e nei mesi si perde, come acqua filtrata da un rubinetto guasto e ci si accorge che più le cose aumentano, più il volume della nostra vita diminuisce. Le cose richiedono spazio, cura, rubano



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